Le sfide del giornalismo ai tempi delle “fake news”

In America aumenta il numero degli abbonati digitali ai quotidiani. E se la post-verità fosse l’ancora di salvezza per una professione?

Le sfide del giornalismo ai tempi delle “fake news”

LA SCORSA SETTIMANA il Financial Times ha pubblicato un articolo in cui analizza l’andamento della vendita dei giornali americani. Il mercato editoriale è in crisi e non è una novità. A pesare non è solo il calo dei lettori, abituati ormai a informarsi con internet o la televisione. La crisi economica nel suo complesso ha disabituato le aziende nell’investire in pubblicità sui giornali. Sul digitale il mercato pubblicitario è invece monopolio quasi esclusivo di Facebook e Google: agli editori restano le briciole, far quadrare i conti sembra un’impresa impossibile.

Nel 2016 il New York Times ha perso, rispetto al 2015, il 20% degli investimenti pubblicitari. Va peggio a Wall Street Journal e Time che hanno registrato un meno 29%. Nello stesso periodo Facebook e Google hanno invece aumentato del 116% i loro introiti derivati dalla pubblicità, divorandosi da soli i due terzi della pubblicità digitale.

Nell’analisi del Financial Times sorprende però un altro dato, questa volta in controtendenza. Il New York Times ha aumentato del 47% il numero degli abbonamenti digitali rispetto al 2015, con 267 mila abbonati nuovi solo nell’ultimo trimestre, la maggior parte dopo le elezioni di Trump. Risultati analoghi anche per il Wall Street Journal. Difficile comprendere questa tendenza se non la si collega ad altro.

La post-verità e le fake news

Per gli Oxford Dictionaries la parola del 2016 è “post-verità”. Il neologismo indica quelle notizie che colpiscono — e vengono condivise — per il loro lato emozionale. Perché hanno un impatto sul lettore/utente. Poco importa se in realtà sono “fake news”, notizie false.
Molti addetti ai lavori vedono proprio nella diffusione di notizie false uno dei fattori che ha favorito l’elezione di Trump. Per altri invece la loro influenza è sopravvalutata. Quasi che, dando eccessiva colpa alle “fake news”, si volesse così auto-assolvere un’intera categoria, quella dei giornalisti professionisti, perlopiù certi di una vittoria elettorale di Hillary Clinton.

Il feto gettato nel cassonetto

Le notizie possono essere false semplicemente perché, è intuitivo, raccontano ciò che non è vero, per la semplice negligenza di chi quelle notizie le scrive.
Per averne un esempio non occorre andare molto lontano. Lo scorso settembre il quotidiano online locale “La Voce del Trentino” ha pubblicato una notizia: il ritrovamento di un feto, gettato in un cassonetto nella periferia di Trento. Uno scoop, dato che nessun altro giornale locale ne aveva scritto. A seguito della pubblicazione dell’articolo si sono attivati i Carabinieri che hanno verificato come la notizia fosse semplicemente falsa, il fatto mai accaduto.

Il giorno successivo “La Voce del Trentino” ha pubblicato un nuovo articolo per spiegare quanto accaduto. «Quando una donna, conoscente del nostro editore, ha raccontato la storia incredibile del suo ritrovamento di un feto morto in un cassonetto — si legge — abbiamo fatto tutto quello che era possibile fare, nel limite della capacità di un giornale, per capire se la storia fosse vera oppure no».
Ovvero? «Dai particolari che (la donna, ndr) ha dato — continua l’articolo — dalle emozioni che trasparivano dalla sua voce mentre li raccontava, abbiamo deciso di crederle». Ciò che conta è l’emozione.

Meno male che la notizia c’è

Un altro esempio molto citato è quello della versione online del quotidiano l’Unità. Basandosi su un’apparente somiglianza fisica, nell’aprile 2016 il giornale arrivò a supporre che una giovane Virginia Raggi potesse essere fra le comparse nel video del celebre inno berlusconiano “Meno male che Silvio c’è”. Altra notizia falsa e altra smentita pubblica, con la toppa un’altra volta peggiore del buco.
Intervistato dal Corriere della Sera, l’allora direttore Erasmo D’Angelis ammise di non aver verificato la notizia. «Non è un’operazione politica, ma è giornalismo 2.0 — disse –. Il web ha modificato profondamente il giornalismo, sui siti e sui social gira di tutto. Voglio dire che la comunicazione social punta molto sulla quantità e sulla velocità».

Pagare contro le “fake news”

Il vero dibattito sulla cosiddetta post-verità riguarda però altro. Ovvero la possibilità che le “fake news” divengano lo strumento per influenzare l’opinione pubblica, come si crede possa essere avvenuto per la Brexit, oltre che per le già citate elezioni americane. Solo così si riesce a capire il motivo di tanta preoccupazione per le fake news, anche al di fuori della stretta cerchia degli addetti ai lavori.

Tornando all’articolo del Financial Times, la crescita improvvisa del numero di abbonati digitali — in concomitanza all’avvento della discussione sulla “post-verità” — fa sperare che negli Statunitensi ci sia un ritorno alla ricerca dell’informazione di qualità. Il fatto che si sia disposti a pagare per ottenerla è in un certo senso sorprendente.

Internet è infatti cresciuto come il mondo del “gratuito”, dove si paga soltanto la connessione per accedere poi a un’infinità di contenuti senza ulteriori pagamenti. Questa tendenza non è più del tutto scontata, perlomeno oltre l’Atlantico, grazie anche al successo di piattaforme come Spotify (per la musica) e Netflix (per il cinema).

Il dato americano fa sperare che anche il giornalismo digitale — e di conseguenza l’intero sistema dei media — possa aumentare la propria resa proprio investendo sulla qualità. Un “giornalismo premium” che dia più servizi, approfondimenti, interattività e risposte. Tali da poter convincere la gente a pagare volentieri, pur di restare davvero informati.

La ricetta è forse banale. Tradurla in un progetto editoriale — e quindi industriale — è altra cosa. Richiede uno sforzo che forse gli stessi giornalisti non sono sempre pronti a fare.

Scrivi una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.